Un campo rom all’estremo confine di una città solo suggerita. Si intravedono fabbriche in disarmo, fari e motori che corrono sulle tangenziali, supermercati. Un villaggio con leggi e lingua proprie, visitato episodicamente da polizia, operatori sociali, autoambulanze. C’è Askan, un capo burbero, diffidente, violento.
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Quando arriva l’ungherese Branko Hrabal alla guida di un camion carico di scatoloni, convinto di poter trovare uno spazio libero dove accamparsi, l’accoglienza è fredda: deve restare ai margini fangosi del campo. È lui, l’hungarez, l’io narrante che ci conduce nella realtà del campo. A sera gli vanno intorno i bambini, incuriositi dal suo bagaglio. Vogliono conoscere la sua storia. Ogni sera, fuori dalla sua kasolle Branko ne racconta un pezzo. È la storia di un piccolo circo il Kék Cirkusz e della sua genìa sterminata nel campo di Birkenau. Branko è discendente di una dinastia di circensi. Il nonno ha perso la vita insieme a tutta la sua famiglia in un campo di prigionia. Il padre di Branko, unico sopravvissuto, ha celato al figlio le proprie origini. Ma il passato torna a galla, e Branko ripercorre le orme del nonno. La luce del giorno scopre la durezza del vivere, ma al calar del sole Branko riprende il racconto e infine mostra ai ragazzini il contenuto dei misteriosi scatoloni. Dentro c’è un intero circo, con clavette, birilli e trapezi. E allora la sera si colora, e i bambini si trasformano in acrobati, clown, giocolieri. La voce di Branko, dolce, fragrante di sogni e di futuro, è in realtà la voce di un morto. L’ungherese è stato ucciso ma non sa morire, non fino a quando non è sicuro che abbiamo capito che l’immaginazione è più forte, che la vita è più forte.
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